La prima serata della Formica è corsa via fra storie di Storia, e storie di finta Storia, ovvero di Leggenda, e va detto anzitutto che la prima sensazione è stata quella dell'importanza del format: il retrogusto che rimane dopo i primi tre spettacoli, è quello della differenza di risultato fra adattamento e scrittura dedicata.
Due lavori su tre, infatti, erano stati tratti da spettacoli assai più complessi, e perciò appunto adattati alla formula del corto teatrale, e questa caratteristica ha mostrato subito la differenza, sia nella scorrevolezza, sia nel linguaggio.
In ordine di apparizione, Giuseppe De Chiara porta in scena il suo Giovanna, the neapolitan queen - Serial killer woman crazy horse (mai come quest'anno i Corti non sono stati affatto corti, nei titoli), una miscela shakerata di avanspettacolo barocco, iconografia leggendaria accentuata con decise discese allusive, teatro meccanico/musicale e sottofondi trobadorici.
L'opera da cui proviene si sviluppa sui ventidue Arcani maggiori, di cui questo è un intermezzo musicale che sottolinea l'aspetto leggendario che si innesta su quello storico della III Imperatrice, ed è un aspetto che soggiace a ciò che viene tramandato soprattutto per tradizione popolare della figura di Giovanna II d'Angiò-Durazzo, ovvero il suo alone di regina malvagia, spietata e lussuriosa, dedita in particolare, dopo i sessualmente famelici suoi pasti, alla macabra usanza di gettare gli amanti, direttamente tramite una botola, in pasto ad un coccodrillo nascosto nel fossato del Castel Nuovo.
Sulla scena appaiono infatti subito questi due originali "compagni di merende", in senso assai più che metaforico, e soddisfano entrambi appetiti seppur di diversa natura (oltre che ambigua, se consideriamo che il coccodrillo sta sia per simbolo fallico, sia per l'organo femminile che divora), fino a raggiungere il vertice del climax ninfomane con l'unione con un cavallo, o come la chiama lei, l'ippoterapia.
Per dover essere un corto, nella prima parte magari sono state un po' ripetitive, le parti affidate al canto allusivo, mentre le bIzzarrie sono portate all'estremo dall'aver De Chiara stesso impersonificato Giovanna, con accenti ancor più ambigui di quanto già non fossero in sè, e dalla presenza ammiccante degli altri personaggi/animali di Rolando Giancola.
La terza Maria porta la firma di un autore ancora molto giovane, ma già di grande affidabilità: Claudio Buono, per la regia di Roberto Nicorelli, ha messo in scena un racconto preciso, ambientato nelle quinte di un casting cinematografico per trovare l'attrice cui affidare la parte della Vergine Maria. Fra le due candidate più accreditate (naturalmente solo in quanto migliori scalatrici del do ut sesso, essendosi concesse a chiunque che fosse utile, ed infine al regista ed al produttore), si presenta Maria.
Ed è proprio lei, Maria Vergine, o colei che tale anche il pubblico è indotto a credere che sia (e questo va ascritto a merito delle tre protagoniste): per gran parte del tempo, la sensazione è quella della difficoltà delle due aspiranti Marie di fronte alla figura ieratica che per qualche motivo, senza nessun dubbio doveva essersi materializzata ed incarnata fra loro, con il non secondario aspetto di sottrarre di certo la parte tanto agognata. Maria scende dunque nella fossa dei leoni, dei moderni leoni, che cercando di dissuaderla, e fra alcune battute degne di nota (la Madonna di Stanislavskij...), con una caduta di tensione anch'essa ben riuscita si svela infine la realtà: anche Maria non è che una delle altre del casting, solo con più talento ed applicazione, ed il suo lato corruttibile starà nell'accettare di ritirarsi in cambio di una somma di denaro (Fate un'offerta alla Madonna...)
Silvana Pirone presenta invece L'ora del Tell, anch'esso un adattamento di un testo più ampio, che oltretutto ha vinto il premio del pubblico e quello della giuria giovani al Festival Nazionale di Regia Fantasio Piccoli, in una competizione proprio sul tema di Guglielmo Tell; in un esperimento non facile a causa anche della non eccessiva dimestichezza dello spettatore con i simboli della leggenda dell'eroe svizzero, appare subito la metafora dei vizi del potere: l'amministratore degli Asburgo, il balivo Gessler, è trasformato in Gayssler, un effeminatissimo padrone che balla sulle note di "Goodbye Horses" di Q Lazzarus -citazione del Buffalo bill davanti alla telecamera nel Silenzio degli innocenti.
Andando ben oltre l'aspetto di riferimento classico della mela leggendaria, vengono ricordate le fasi della narrazione originale, dal cappello imperiale lasciato in cima ad un'asta per l'ossequio dei passanti che Tell ignorò, alla successiva condanna, al premio della salvezza nel caso in cui, da famoso balestriere qual era, avesse colpito la mela sulla testa del figlioletto Gualtierino, alla seconda freccia nascosta sotto la giacca, pronta per il tiranno in caso di fallimento della prima, e così via. L'attenzione si sofferma, sempre in maniera assai dinamica, sul rapporto invertito fra padre e figlio e fra loro ed il governatore, con molto spazio lasciato al lavoro sulla corporeità degli attori (Marco di Prima, Antonio Piccolo e Dario Tacconelli) ed all'assemblaggio di elementi come il cappello e la funzione della mela, facendo magari anche chiedere allo spoettatore cosa si ricorda, più in generale, delle storie, oltre alle icone tramandate dalla leggenda.